L'opera, la poetica e il pensiero di Lucio Fontana raccontate dalla Professoressa Emanuela Pulvirenti, dal critico e docente Dino Marangon, dal professor Paolo Campiglio e da Lucio Fontana stesso, in un'intervista concessa a Tommaso Trini pochi mesi prima della sua scomparsa.
"Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c'era l'abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d'un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d'una villa con dodici servitori.
Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni' disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto".
Questa storia, narrata da Italo Calvino nelle sue celebri Lezioni americane, mi è tornata in mente pensando a come spiegare in classe Lucio Fontana. Sì, proprio lui, quello dei tagli e dei buchi nelle tele.
Ma cosa c'entra l'antico filosofo taoista con un artista del Novecento? Sembrano due mondi lontanissimi eppure c'è un senso comune al loro operare.
Il racconto di Calvino, infatti, si sofferma sull'attesa, ben dieci anni, prima della estemporanea realizzazione.
Ma se Chuang-Tzu era così bravo perché non ha fatto subito il disegno? Evidentemente ha lavorato sull'immagine del granchio a livello mentale, se n'è appropriato, ha elaborato una sua "teoria della granchità", l'ha sviluppata e sistematizzata. E quando ormai sentiva il granchio nella sua testa, nel suo cuore e nelle sue mani, allora era pronto.
Certo il taglio nella tela fatto da Fontana con il cutter sembra molto lontano dal perfetto granchio cinese.
Eppure dietro quel gesto, deciso, minimo, c'è un percorso intellettuale profondo: la constatazione della necessità di superare ancora una volta diecimila anni di rappresentazione pittorica.
Ciò che sta dietro una delle "attese" di Fontana è la parte più importante dell'opera. È un lavoro concettuale e filosofico straordinario.
Dopo che ad uno ad uno, con le Avanguardie artistiche, erano saltati via come birilli tutti i punti fermi della pittura di ogni epoca (dalla prospettiva all'anatomia, dalle proporzioni al chiaroscuro, dal rapporto figura-sfondo alla presenza di figure riconoscibili) era rimasto l'ultimo ostacolo: la tela.
Quella non era mai stata messa in discussione. Era sempre lì, a supporto di un mondo rappresentato: anche se solo con macchie e linee, era sempre un piano su cui agire.
Allora Fontana decide di andare oltre, di penetrare nello spazio pittorico fisicamente, lacerandolo dopo una lunga riflessione come si può osservare da questa sequenza di foto scattate da Ugo Mulas.
In quel momento è come un samurai: il suo gesto è la conclusione millimetrica ed essenziale di una meditazione profonda.
Sembra, dunque, tutto molto coerente e significativo. Eppure è uno dei gesti artistici più controversi della storia dell'arte.
Difficile, per uno dei miei studenti, trattenersi dal dire "Ma questa è arte? Potevo farlo pure io!". Ma, come dice Bruno Munari, "quando qualcuno dice: questo lo so fare anch'io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima".
A parte il fatto che Fontana l'ha fatto sicuramente prima del mio studente (cosa che, tuttavia, non è condizione sufficiente perché si tratti di "vera" arte: essere i primi a fare qualcosa non ci assicura che quel qualcosa non sia una boiata…), il taglio o il buco nella tela era la dimostrazione materiale di un concetto spaziale, lo Spazialismo appunto.
Allora mi rivolgo direttamente a te, caro studente: sei sicuro di essere capace di ripensare l'arte in modo così radicale? Non fermarti al taglio! Quello non è importante, in fin dei conti. È tutto quello che c'è dietro e prima il vero momento artistico!!!
Secondo Fontana l'operazione consiste nello sfondamento del muro dell'arte, il rapporto di continuità tra le due dimensioni dello spazio, attraverso un varco fisico creato nella materia e la dilatazione del varco fino ad arrivare allo spazio-ambiente in cui lo spettatore entra nell'opera d'arte e vive con tutta l'esperienza psicosensoriale.
Incomprensibile come chi fa solo finta di essere un artista? Da questo punto di vista posso dimostrarti tranquillamente come lui fosse capace di realizzare sculture e disegni assolutamente comprensibili e magistralmente compiuti.
Dunque i tagli non sono dovuti a scarsità di talento artistico. Come hai potuto constatare, Lucio Fontana sapeva cavarsela bene con le tecniche tradizionali.
Ma non voglio convincerti che le sue opere siano dei capolavori. I tuoi dubbi sono legittimi e la tua perplessità di fronte all'incomunicabilità di uno squarcio, assolutamente comprensibile. Non sei il primo e non sarai l'ultimo a chiederti se quella di Fontana sia vera arte.
Quest'installazione, ad esempio, è un segno luminoso sospeso al soffitto della Triennale di Milano nel 1951. Che vuol dire?
Posso dirti quello che ci vedo io: è un po' come se la scia luminosa di un gesto compiuto in aria si sia solidificata restando ad aleggiare nel vuoto delle scale. Io lo trovo eccezionale!
La novità sta proprio nell'uso di materiali-immateriali come la luce e lo spazio. Il vuoto diventa protagonista.
E a proposito dell'importanza del "vuoto" mi torna in mente un'altra perla di saggezza taoista, attribuita a Lao Tze:
Unire trenta raggi nel mozzo di una ruota,
nel non essere sta l'uso del carro.
Plasmare l'argilla per farne un vaso,
nel non essere sta l'uso del vaso.
Cesellare porte e finestre per farne una casa,
nel non essere sta l'uso della casa.
Quindi ciò che esiste determina il vantaggio,
l'inesistente determina l'uso.
Ormai da tempo la grandezza e il valore dell'opera di Lucio Fontana sono stati riconosciuti dalla critica e dal mercato. Tuttavia proprio la giusta e finalmente acquisita universalità di tale successo ha forse, per taluni aspetti, finito con l'indurre a non conferire un adeguato risalto a talune fonti e circostanze nell'ambito delle quali la sua eccezionale creatività è venuta concretamente sviluppandosi, in particolare per quanto riguarda il sorgere e il manifestarsi delle sue straordinarie e innovative scoperte spazialiste. Da un lato si tende infatti a sottolineare la continuità delle sue ricerche accentuando il pur fondamentale ruolo svolto nella sua opera dalle "componenti disegnative", considerate "presupposto strutturale costitutivo di ciascuna proposizione fontaniana", rimarcandone in particolare la "intrinseca corsività", tale da improntare l'intera "concettualità fontaniana... destabilizzandola da ogni pretesa di assolutezza che radicalmente è stata estranea ..." alla sua "mentalità creativa", dall'altro, già a partire dagli anni Trenta, si tenderà a considerarlo una sorta di "leggenda", un "temperamento bizzarro" consegnandolo, ha osservato Luca Massimo Barbero, "... a quella fama di originalità inclassificabile o stigmatizzabile con cui parte della critica, soprattutto italiana lo identificherà per buona parte della sua carriera".
Tutto questo soprattutto in riferimento alla dirompente novità delle sue effrazioni spazialiste, ma rilevando altresì, a partire dalla titolazione "Concepto espacial" usata ancora nel corso della sua permanenza in Argentina, "... una indubbia antecedenza pionieristica di Fontana rispetto alle intenzioni delle manifestazioni correntemente, negli anni Sessanta e Settanta dette concettuali, nel senso della Conceptual art ...", pur in una "... divaricazione sostanziale proprio per la disponibilità pragmatica manuale del suo tutto fattuale operare." Se in generale, come affermava Enzo Paci, "... non è mai possibile fissare il significato di un'opera d'arte seguendo soltanto un'idea guida o un aspetto separato dagli altri della complessità della vita artistica", soprattutto fonti e contesti appaiono tuttavia imprescindibili per tentare una adeguata interpretazione. Così, più che sottolineare la singolarità dell'indole di Fontana, "... poco propensa alla pianificazione regolare della creazione", a causa, quasi ossimoricamente, della sua "originalità spavalda e programmatica", potrebbe risultare utile rilevare come la sua ricerca spaziale si collochi in un orizzonte che, seppur in termini diversi, affianca e catalizza anche le ricerche di altri protagonisti dell'arte italiana della seconda metà degli anni Quaranta.
La dirompente novità delle opere spazialiste di Fontana, il suo entusiasmo e la sua capacità di promuovere e aggregare l'omonimo movimento, hanno forse fatto distogliere l'attenzione dal fatto che nell'immediato dopoguerra, ancor prima del suo ritorno in Italia nel 1947, anche altri artisti risultassero impegnati nell'approfondire il problema di una nuova concezione dello spazio, inteso quale fondamento al rinnovamento dell'arte, reso necessario dai nuovi tempi. In questo orizzonte, ad esempio, tra i futuri firmatari dei Manifesti Spazialisti, in ambito veneziano, Mario Deluigi, vicino non senza contrasti ad Arturo Martini , dopo aver tentato di dar vita nel 1946 assieme all'architetto Carlo Scarpa e ad Anton Giulio Ambrosini a una Scuola Libera di Arti Plastiche, con l'intento, come si evince dal Programma di pervenire a un rinnovamento degli studi "... secondo le attuali esigenze spirituali", a partire dai "...caratteri fondamentali della natura italiana in rapporto alla soluzione del problema plastico" verrà elaborando il suo Periodo fisiologico, nel corso del quale, sulla base della convinzione che nella nuova epoca che si stava aprendo, l'arte avrebbe dovuto mutare le proprie consuete funzioni, tralasciando ogni forma di insostenibile pretesa scientifica, per divenire luogo liberatorio dei desideri, degli impulsi e delle emozioni umane, egli verrà attingendo ad una spazialità, nel cui alveo, l'accadimento dei corpi verrà configurandosi in aeree masse e aleggianti forme curvilinee variamente colorate, al di fuori di ogni "... trama plastica che meccanicamente, cioè fisicamente lo giustifichi in una linea di continuità" , dato che trovavano il proprio fondamento nel dinamismo insito nella profondità multidimensionale dell'emozione plastica per poi, dopo essersi confrontato con molteplici influssi, fino alla misteriosa fecondità immaginativa di Lautrèamont, fare i conti, nelle sue Litanie della Vergine del 1949, ora ai Musei Vaticani, anche con le meditate strutturazioni neoplastiche.
Per parte sua, anche Virgilio Guidi, dopo aver respinto gli esiti dell'astrattismo kandiskyano, dal 1946 verrà elaborando le sue inconfondibili Figure nello spazio, esposte nella Biennale del 1948, portando, in tali opere, alle estreme conseguenze gli spunti preannunciati nelle inquiete e sospese figure del periodo bolognese, attraverso il completo coinvolgimento dell'immagine nel ritmo, che viene a costituirne l'ambiente, non solo conferirà profondità e ricchezza al dispiegarsi dello spazio nel quale le figure appaiono dinamicamente contenute, ma trasformerà significativamente anche il loro universo coloristico, liberandolo da ogni limite naturalistico, operando in modo che "... il chiaro di ognuno di essi sia uguale e inerte, mentre l'ombra sia data dal colore che ad ognuno appartiene e limpidissimo", cosicché tali figure emergano meglio "nella loro individualità coloristica, nella luce", avvertendo in seguito anche lui il bisogno di esplorare le possibilità insite nelle astratte strutturalità del reticolo neoplastico, anche se, pur apprezzando la grandezza di Mondrian, da lui ritenuto "... più di ogni altro desideroso di attingere a una più profonda misura matematica", giudicherà tuttavia la perfetta bidimensionalità dell'immagine mondriana, inadeguata a rendere l'infinita complessità del reale, affermando che la pittura del maestro olandese "... non sarebbe stata sufficiente se la luce non fosse intervenuta a smaterializzare i colori e a dare profondità e dimensione misteriosa."
A riprova che la natura poteva essere legge di se stessa, Guidi verrà quindi dipingendo le sue Marine con grata, nelle quali attingerà a una compiuta identificazione fra consistenza oggettuale e strutturazione spaziale, rimeditando altresì originalmente le vibranti stesure matissiane, attingendo così alla profondità del colore-luce per giungere a oltrepassare l'empiricità del piano dell'opera per aprire nuovi e più vasti orizzonti spirituali. In ogni caso, sia Guidi che Deluigi, dando, probabilmente su consiglio del gallerista Carlo Cardazzo, la loro adesione al Movimento spazialista e sottoscrivendo il cosiddetto IV° Manifesto dell'Arte Spaziale (redatto la sera del 26 novembre del 1951 alla Galleria del Naviglio) nel quale veniva, tra l'altro affermata la "... priorità dell'arte come forza di intuizione del creato", troveranno in questo nuovo contesto la possibilità di approfondire e sviluppare ulteriormente le proprie differenti istanze creative, esplorando nuove condizioni e possibilità espressive.
Ritornando a Lucio Fontana, non è questa l'occasione per ripercorrere se non per accenni il suo multiforme e complesso itinerario creativo. Basterà ricordare il suo intuitivo carattere antidogmatico e antigrammaticale che, fin dagli esordi, lo porterà a contraddire la smaterializzante politezza delle superfici del suo maestro a Brera Adolfo Wildt, attraverso la forte accentuazione materica di alcune sue opere, tra le quali il celebre Uomo nero del 1930, per opporsi successivamente - nonostante i talora numerosi imprestiti: dall'improvviso plastico di Arturo Martini, dall'avvolgente plasticismo di Rodin e dalla pienezza plastica di Maillol - all'idealismo di Novecento e alla prevalente restaurazione figurativa allora variamente richiamantesi alla tradizione classica e protorinascimentale, giungendo quindi ad assumere una posizione eretica ed eterodossa anche nei confronti degli astrattisti, con i quali sarà in stretto contatto verso la metà degli anni Trenta, come testimoniato dalle sue tavolette graffite e soprattutto dalle sculture in ferro e cemento variamente colorate, presentate nel 1935 alla Galleria del Milione.
Molteplici saranno, negli anni successivi, gli influssi, le partecipazioni, le scoperte, le relazioni e i rapporti in cui Fontana si sentirà coinvolto e che lo porteranno, forse in analogia con gli indirizzi di un importante settore del mondo culturale milanese gravitante attorno al filosofo Antonio Banfi, e ad alcuni dei suoi allievi , ad aprirsi intuitivamente a problematiche di carattere fenomenologico, mentre nel frattempo, pur al di fuori delle dialettiche di gruppo, verrà altresì avvicinandosi al movimento di Corrente, forse attratto da una più diretta sensibilità espressiva, ai limiti del visionario. Sono gli anni, a partire dal 1936 delle sue immagini a mosaico, nelle quali la lucida luminosità dell'oro sembra rompere la consistenza plastico-volumetrica delle figure. Sarà comunque soprattutto nell'uso della malleabililità e maneggevolezza della ceramica, che Fontana raggiungerà una eccezionale libertà di modulazione ed effusione nello spazio delle sue Nature morte e, a partire dal 1937, allorché sarà invitato a lavorare alle celebri manifatture di Sèvres, dei suoi soggetti marini: opere che in taluni casi hanno fatto parlare di una sua propensione neobarocca e altre volte di riferimenti all'impressionismo del lombardo Medardo Rosso , mettendo altresì in mostra la sua straordinaria capacità di fermare il gesto nella sua entità provvisoria che, da una parte, sembra preludere a certe problematiche della molteplice fenomenologia dell'informale - (le Nature morte di Fontana, sembrano poter lasciar affiorare, pur in una differente temperie, un qualche termine di confronto con quelle coeve di Fautrier) – e dall'altro preannunciare taluni sviluppi, fondamentali nella futura stagione dello Spazialismo, del tema dell'effimero.
Nel continuo susseguirsi di ipotesi, esigenze e istanze creative, Fontana verrà altresì creando anche una significativa serie di interventi a scala più ampia, operando spesso nell'ottica e in funzione dell'architettura, tra i quali forse il più celebre sarà il grande gruppo della Vittoria, nell'intervento, realizzato con Marcello Nizzoli e Riccardo Palanti, in occasione della VI^ Triennale del 1936, operando una frequentazione dello spazio a scala umana che verrà quasi a costituire una premessa indispensabile ai futuri sviluppi ambientali della sua ricerca. Nel corso della sua permanenza in Argentina, dove ritornerà nel 1940, l'attività di Fontana si mostrerà molto varia e quasi combattuta, da una parte dalla volontà, agli inizi predominante, di lasciarsi andare nel tentativo, spesso coronato da successo, di conseguire premi e riconoscimenti, mettendo a frutto la sua straordinaria abilità nel modellare, in opere che talvolta rivelano la ripresa di certi motivi e stilemi martiniani e, più in generale caratteristici del Novecento Italiano - che tuttavia, come è stato notato, "... in Argentina potevano comunque in qualche modo costituire una novità" - e, dall'altra, dalla capacità di mettere a frutto il proprio virtuosismo nell'affrontare i complessi procedimenti dell'arte ceramica con esiti di una forse ancor maggiore vibrazione e agilità neobarocche, sulla linea delle prove già offerte in Europa ad Albisola e a Sèvres, mentre l'istinto più segreto e raccolto dello sperimentatore verrà sovente affiorando nella più intima e libera espressione del disegno, spesso rivolto a esplorare una sempre più libera corsività: con indagini per taluni aspetti quasi parallele all'automatismo surrealista, privato tuttavia da ogni aspetto di critica corrosiva alle convenzioni, alle consuetudini e alle imposizioni sociali, per volgersi viceversa a esplorare la possibilità di nuove, inesplorate e libere dimensioni spaziali.
Sarà comunque nel clima effervescente dell'Argentina di quegli anni, in cui venivano alla luce nuovi movimenti e nuovi gruppi, ognuno dei quali intendeva pubblicare manifesti polemici e chiarificatori dei propri postulati estetici, che Fontana organizza a Buenos Aires, con Jorge Romero Brest e Jorge Larco, la Escuela libre de Artes Plasticas "Altamira", ispirando ad alcuni suoi allievi il famoso Manifiesto Blanco pubblicato nel 1946 , nel quale, oltre al proclamare il desiderio di realizzare un'arte pura, limpida, non illusivamente referenziale (appunto blanca), venivano sottolineate le fondamentali interrelazioni fra arte e scienza, auspicando un continuo allargamento di orizzonti e di prospettive, frutto dei nuovi strumenti e materiali tecnologici e dei nuovi mezzi di comunicazione, soprattutto sulla base del concetto di subcosciente, inteso, distinguendolo così all'indifferenziato, prenozionale, indistinto e inconsapevole inconscio surrealista, quale "... magnifico ricettacolo dove alloggiano tutte le immagini che l'intelligenza percepisce", giungendo così a rimodellare l'individuo, integrandolo, trasformandolo e rendendolo capace di creare opere e immagini inedite, ma nell'alveo di una straordinaria cultura e civiltà della visione.
Con un procedimento d'altronde tipico delle avanguardie, veniva così acquisendo, particolare importanza la ricerca nel passato di momenti e punti d'appoggio utili all'auspicato allargamento di orizzonti di prospettive. Venivano così individuati significativi antecedenti e punti di sintonia con le ricerche fontaniane sia nel Barocco, in quanto "aggiunge alla plastica la nozione del tempo", sia nell'Impressionismo, per mezzo del quale le arti plastiche riescono ad "affrancarsi" dalla musica che per secoli aveva mantenuto il dominio sulla marcia dell'uomo e, soprattutto, nel Futurismo che, pur dando eccessivo peso alla sensazione ha il merito di adottare "... il movimento come unico principio e unico fine." Sarà sulla base di questo straordinario bagaglio di idee, spiegazioni ed esperienze che tornato in Italia nella primavera del 1947, Fontana darà vita alle sue opere più propriamente spazialiste. Oltre a presentare alla Biennale del 1948 un'opera in gesso realizzata due anni prima e significativamente intitolata Scultura spaziale, nella quale sembra riprendere plasticamente, ma con un particolare senso di sospensione della materia, i modi e gli andamenti dei liberi grafismi dei suoi disegni coevi, sempre nel corso dello stesso anno, a dicembre, in occasione della prima mostra del neonato Movimento d'Arte Concreta presso la Libreria Salto, a Milano, esporrà le sue tempere su carta con nuclei circolari ed ellittici, o talvolta anche poligonali irregolari, perlopiù concentrici, in cui la leggera e umbratile trasparenza del colore (a sottolinearne l'artificialità, Fontana ricorre talvolta all'argento e all'oro) appare quasi un'aerea atmosfera che diviene allusiva di una profondità spaziale, anche oltre il piano del foglio che, tuttavia, pur essendo pienamente coinvolto nella propria piena, ideale e convenzionale virtualità, contribuisce ad accantonare ogni contingenza rappresentativa, sottolineando invece la pura e concettuale assolutezza dell'opera.
Sono proprio tali tempere intitolate sia Ambiente che Concetto spaziale, entrambi talvolta precisati con il sottotitolo Evoluzione, a costituire il prodromi dei successivi sviluppi dello Spazialismo fontaniano e a poter essere interpretate quasi come progetti per le successive aperture ambientali operate dall'artista, secondo l'auspicio dell'impiego di nuovi mezzi di espressione artistica e di un pieno coinvolgimento, di lontana matrice futurista tra arte e mondo della vita, ma anche come significative anticipazioni della non meno importante, opposta esigenza, avvertita da Fontana, sebbene forse non ancora adeguatamente sottolineata dalla critica, di ricercare e mantenere, pur con le modalità nuove, la assolutezza plastico concettuale dell'uni-verso dell'opera. Nella sua introduzione al Catalogo delle opere su carta di Fontana, Luca Massimo Barbero, nell'analizzare in particolare un disegno del 1949, Studio per concetto spaziale (matita nera su carta, cm. 28 × 22), caratterizzato da una scritta: "I buchi: nessuna rivoluzione una forma intelligente (quest'ultima parola risulta barrata) come un'altra di decorare una tela", sotto la quale "... si trovano due rettangoli in cui sono distribuiti alcuni sciami di punti a matita che si raccolgono in forma sferica in dissolvenza", avanza la tesi della "... nascita puramente grafica del buco, elemento primario della nuova poetica spazialista."
Io non credo vi siano elementi per poter affermare con certezza che si tratti di un disegno che anticipa le concrete effrazioni dei celebri buchi, (anzi lo stesso scritto sembra, a mio avviso, più una considerazione a posteriori, che un proposito progettuale) anche perché una tale ipotesi finisce con l'indurre a non considerare, taluni aspetti, a mio avviso, fondamentali dello Spazialismo fontaniano: da ricercare nel confronto, nel contrasto e nello straordinario superamento dell'antitesi profondamente vissuta dall'artista tra i differenti universi della scultura e della pittura contribuendo in questo orizzonte, nell'ambito di una concezione maggiormente improntata al pur fondamentale panorama internazionale e più linearmente evoluzionistica dell'avanguardia, a non far emergere e a celare alcuni connotati delle relazioni che, al di là dei più noti e giustamente sottolineati rapporti con la tradizione dei futurismi, Fontana ha probabilmente potuto intrattenere anche nei confronti di ulteriori, molteplici percorsi dell'arte plastica italiana del XX secolo, con particolare riferimento alle profonde e articolate riflessioni ideali e concettuali che il più famoso scultore dell'epoca, Arturo Martini, era venuto enunciando nel suo celebre testo su "La scultura lingua morta", specie per quanto concerne la opposizione tra pittura e scultura, incapace quest'ultima, secondo Martini, in quanto sempre legata al soggetto e soffocata dalle scorie naturalistiche, di raggiungere e produrre valori artistici assoluti.
Così, ad esempio, nel suo drammatico tentativo di chiarire a se stesso i problemi della struttura del proprio lavoro, Martini nel suo caratteri-stico linguaggio vivace e sorgivo, era arrivato a sostenere: "Un pomo modellato da Fidia, resta un oggetto, mentre un pomo dipinto, anche se dipinto male, rientra nel fenomeno dell'arte" e a precisare: "Il pomo modellato è fuori dell'arte perché è un fatto iconografico isolato nello spazio, il pomo dipinto è un fatto d'arte ... perché sono costruiti anche lo spazio e l'ombra che lo circondano." Venendo inoltre a considerare le componenti essenziali dell'arte plastica, Martini aveva potuto rilevare: "Vuoti e pieni, concavi e convessi sono", in scultura, " desideri romantici negati alla costruzione perché privi di presa e di forza d'innesto. Anch'io", aveva confessato Martini "un tempo ho sperato la libertà che promettevano questi valori, ma dove sono i pieni di una statua? I vuoti sono come i ritagli che si fanno con le forbici nella carta, i pieni sono la sagoma che ne risulta." Per poi (come si è già avuto modo di accennare) significativamente precisare: "Un disegno ha una potenza d'arte mille volte superiore alla statua perché trova la sua atmosfera nello stesso foglio di carta, mentre la statua non ha che un casuale sfondo estraneo alla creazione", specificando inoltre: "In pittura un tono sbagliato è un grande squilibrio e fa nel quadro un vuoto che sfonda come un buco" mentre, "nella scultura questo squilibrio è costante: ogni vuoto è un buco di materie e concezioni diverse . Alla luce di tali considerazioni sembrano quindi acquistare nuovo valore non solo alcuni significativi nessi, questi sì, ampiamente rilevati dalla critica, tra la plastica martiniana e alcuni aspetti dell'opera figurativa fontaniana, ma anche la significativa testimonianza di Jorge Roccamonte il quale, nel ricordare l'atmosfera in cui era nato il Manifesto blanco, di cui era stato uno dei firmatari, appunto riferiva: Fontana, "Mi parlava di Martini, della scultura lingua morta, del futurismo, di Marinetti che lui aveva conosciuto."
Ovviamente Martini, nell'ambito della propria formazione culturale fondamentalmente improntata ad un umanesimo idealistico che poneva la figura umana quale valore massimo , pur giungendo negli ultimi anni, a staccarsi da ogni retorica statuaria. non poteva trovare piena soluzione ai problemi tanto dolorosamente enunciati in La scultura lingua morta. Fontana invece, anche se di un simile percorso rimane difficile trovare traccia nelle dichiarazioni e nei documenti di poetica – ma non bisogna dimenticare che per molti aspetti, Martini veniva dai più considerato come lo scultore ufficiale del novecentismo italiano, tendenza in qualche modo legata anche al passato regime mussoliniano - sulla scorta del proprio caratteristico atteggiamento antidogmatico, antigrammaticale e fondamentalmente di ordine fenomenologico (aperto cioè a una insieme più contingente e più universale sensibilità empirico-esistenziale e insofferente a ogni preconcetta idealizzazione) sarà in grado di esperire una soluzione operativa ai problemi così chiaramente e impietosamente messi al tema da Martini, appunto attraverso quel superamento della specificità dei mezzi propri a ciascun ambito linguistico ed espressivo che, assieme all'ipotesi di un inedito uso artistico dei nuovi media dati dalla tecnologia, vengono a costituire i principali fondamenti dell'intera teorica spazialista. D'altronde lo stesso Fontana non ha forse proclamato: "Non ci può essere pittura o scultura spaziale, ma solo un concetto spaziale dell'arte" Agendo strumentalmente da scultore sull'ideale e convenzionale virtualità del foglio o della tela tesa, ovvero del piano ideale nella pittura, Fontana - anche se spesso, specie agli inizi, le sequenze e le costellazioni di buchi che forano la superficie sembrano rimandare a una sorta di "iconografia del vortice" in arabeschi chiara allusione cosmica e siderea - supera e rende infatti interna all'opera proprio quell'accidentalità delle ombre e delle fonti luminose che trascesa nella pittura, impediva invece, come aveva sostenuto Martini, alla scultura di poter raggiungere "l'assoluto artistico".
Si veniva così producendo una particolare e vivificante ambivalenza per cui, se da un lato ogni pura idealità veniva messa in questione dalla fattualità dell'intervento, dall'altro proprio questa mera pratica appariva contraddetta non solo dalla assoluta virtualità della superficie pittorica, ma anche dall'allusiva "non misurabilità" che, rispetto al piano del quadro, veniva aperta dall'effrazione del buco e più tardi del taglio, coinvolgendo così il fruitore in un'altra e inedita dimensione spaziale. L'opera di Fontana sembra così, per molti aspetti, poter essere interpretata quale positivo punto di sintesi e di soluzione delle istanze avanzate da entrambi i due grandi protagonisti della scultura italiana del XX secolo: Boccioni e Martini. Non a caso - anche se ciò viene sovente inspiegabilmente ignorato dai critici e dagli storici dell'arte che si sono occupati della sua opera - nella presentazione della mostra personale in cui Fontana esponeva per la prima volta i suoi celebri "Concetti spaziali" con i buchi, Giampiero Giani indicherà appunto, "Da Boccioni a Martini" l'orizzonte in cui l'artista aveva preso le mosse contemperando e dando nuovi sbocchi e svolgimenti sia "... alla volontà di realizzare la forma insieme con la sua immediata circostanza spaziale, in grazia di uno scatto d'emozione che va al di là dell'oggetto e si disperde nell'ambiente" , così genialmente tradotta da Boccioni nelle famose "Forme uniche nella continuità dello spazio" che costituiscono il capolavoro del maestro futurista, sia a quelle aspirazioni a valori plastici assoluti che avevano costituito il traguardo segreto dell'opera e del pensiero di Martini.
Un complesso intreccio di fonti e di significati di cui va probabilmente tenuto conto, anche se nel messaggio di un movimento come quello spazialista, che intendeva porsi all'interno della tradizione delle avanguardie, tutto ciò poteva anche essere ritenuto eccessivamente complesso e di difficile comunicabilità e quindi, probabilmente anche su consiglio di un gallerista abile e avveduto come Carlo Cardazzo, almeno in parte sottaciuto. Va tuttavia rilevato che proprio l'inserimento di Fontana nell'ambito di una tale diversa tradizione problematica potrebbe forse consentire di spiegare meglio la sua originalità e differenza anche rispetto al vario panorama delle poetiche informali per lo più gravitanti attorno alle immediate e talvolta automatiche esplicazioni di un'originaria soggettività prenozionale e immediatamente esistenziale, spesso coinvolta nella negatività di un'esperienza di angoscia e di scacco. Fontana infatti, pur dando ampio spazio ai valori della propria individualità e soggettività crea-trice, contro ogni astratta ipostatizzazione astratto-geometrizzate, proprio nella soluzione della dialettica supposta da Martini tra pittura e scultura, viene a collocare la propria operatività, corroborata anche dell'avvertita adesione al divenire storico e al progressivo dinamismo impresso dagli sviluppi scientifici e tecnologici alla vita e alla coscienza collettiva, all'interno di una problematica linguistica e quindi per certi aspetti tendenzialmente intersoggettiva: ciò che può forse costituire una delle principali motivazioni della sua continua propensione - fin dal tempo della sua permanenza in Argentina e della formulazione del Manifiesto blanco - a ispirare e a dar vita a gruppi e movimenti, culminante appunto, negli anni del dopoguerra, nello Spazialismo.
La scultura è nel patrimonio genetico di Lucio Fontana:. Egli appartiene a una famiglia di decoratori e artigiani di cui uno dei rappresentanti più illustri è il padre Luigi, emigrato in Argentina dall'Italia, con cui l'artista ha avuto un rapporto contraddittorio, di amore e odio: è il padre, scultore e acuto imprenditore a Rosario a cavallo tra i due secoli, a insegnare al figlio i rudimenti di quest'arte, la modellazione, la scultura in marmo, l'importanza del contesto architettonico.
È il padre a mostrargli come rendere l'espressione dei sentimenti nella figura umana, l'importanza dell'incidenza della luce. Ma il genitore è anche la prima figura a essere contestata e "uccisa" dal giovane Lucio, in cerca di una propria strada, lontano dalle secche di una abitudine professionale ottocentesca: egli è dotato di una manualità straordinaria ed è un virtuoso nel plasmare le figure.
Giunto a Milano nel 1927 per garantirsi una formazione all'Accademia di Belle Arti di Brera Fontana è affascinato dal maestro Adolfo Wildt, dall'estrema sintesi plastica dei suoi marmi, dalla tensione luministica delle superfici, dalla chiarezza delle sculture dorate. L'arte di Wildt lo attira per il raffinato gioco della metamorfosi della forma, nel passaggio dalla figurazione all'astrazione, e della materia: la durezza del marmo attraverso il sapiente uso dello scalpello si trasforma nella sinuosità di motivi apparentemente privi di sostanza.
È un virtuosismo eroico ed eretico, quello del maestro simbolista: Lucio lo ritiene meraviglioso. Ma gradualmente lascia quelle preziosità, una volta diplomato nel 1930, gettando le basi per una ricerca in proprio. Ora è, invece, il fascino per la plastica colorata di Archipenko e Zadkine, due autori già studiati a Rosario, a nutrire i suoi esperimenti iniziali di scultura. A Milano nei primi anni trenta, il suo primitivismo antidiluviano, ricco di tensioni espressioniste, fa scandalo. In mancanza di una committenza e di un collezionismo d'arte contemporanea nel contesto italiano di quegli anni, lo Stato fascista si garantisce la collaborazione dei pittori, degli scultori e degli architetti attraverso gli ordini professionali (sindacali) nelle manifestazioni pubbliche, nella committenza monumentale, negli allestimenti delle mostre d'arte: la Triennale di Milano è un laboratorio di idee e di progetti dove i giovani esponenti del Movimento Moderno e del Razionalismo - architetti come Terragni e Lingeri, Figini e Pollini, il gruppo BBPR - incontrano artisti allora trentenni come Fontana e Fausto Melotti, tra gli altri.
L'ideale è quello di un'arte europea e sovranazionale, l'arte che si fa a Parigi in quegli anni: così Fontana partecipa al movimento parigino di Abstraction Création nel 1935, nella convinzione che la scultura debba uscire dal hiuso della forma plastica e si liberi dal volume in strutture essenziali, astratte, prive di peso: la sua mostra personale di opere astratte alla Galleria del Milione nel febbraio del 1935 è un insuccesso totale nella Milano dell'epoca. Ma l'artista non si scoraggia, fa tesoro di quell'esperienza che egli ritiene importante da un punto di vista teorico e polemico, di rivolta contro un contesto arretrato, di provocazione, di sondaggio spaziale.
Per tutti gli anni trenta, nel clima dell'Italia fascista, l'artista accetta di buon grado i concorsi pubblici e le collaborazioni con gli architetti a lui più vicini, ma anche in questo caso egli ha l'abilità di trasferire sempre a suo vantaggio le ipotesi plastiche, pur in un ambito figurativo e di rappresentazione simbolica del potere. È il caso dei Cavalli che seguono la Vittoria (1936) esposti in questa mostra, il piccolo bozzetto per i Cavalli di maggiori dimensioni (dell'altezza di 2,5 metri) realizzati in gesso armato e completamente bianchi che costituivano, con la statua dell'Italia (poi denominata Vittoria) l'energia dinamica e il punto di attrazione nel Salone della Vittoria della VI Triennale del 1936. Si trattava del cuore più rappresentativo e simbolico dell'esposizione, un ambiente altamente suggestivo ideato da Edoardo Persico, architetto e critico d'arte: eppure il gruppo plastico di Fontana, di proporzioni incredibili, non cedeva con facilità alla retorica del Regime, figurativo e astratto contemporaneamente.
Le sculture bianche, erano apparizioni fantasmatiche nell'ambiente illuminato da luci ad alto voltaggio, dove si perdevano le ombre. I cavalli si tramutavano in pure forme plastiche che, in posizione rampante, cercavano spazio.Anche nelle commissioni ufficiali la sua arte assume un significato anti- monumentale, in alternativa alla retorica dell'arte di commissione. Figurazione e astrazione non sono per Fontana categorie in contraddizione: lontano dagli schieramenti politici e dall'intransigenza tipici dei movimenti d'avanguardia, egli riesce a esprimere nella figurazione una sensazione astratta, un concetto plastico evanescente mentre attraverso la scultura non figurativa spinge l'arte in un territorio di pure relazioni e di rapporti spaziali. È una soluzione che verrà ripresa nel dopoguerra, riconosciuta dallo stesso artista come la prima apertura verso il concetto spaziale.
Il Concetto spaziale, ovvero la tela forata, nasce nel 1949: è un gesto, una formula sintetica, che esprime i valori di una civiltà che intende rinascere dalle macerie della seconda guerra mondiale, la civiltà dell'era atomica e spaziale. Non è scultura e non è pittura, la tela forata è l'espressione che ribadisce la presenza di una quarta dimensione, lo spazio-tempo, anche nel nostro presente quotidiano. Fontana crede in una civiltà nuova che si lasci alle spalle la materia e il sangue e risorga in una dimensione utopica e avveniristica, ideale. Ma la materia non è mai veramente abbandonata dall'artista, così il suo approccio alla ceramica, da scultore, dà sempre nuovi frutti. Parallelamente alle prime tele forate, in cui i fori hanno anche un valore plastico, spesso perpetrati dal retro della tela, egli elabora nel 1950 una ceramica che verrà denominata dallo stesso artista Il pane, per il singolare spessore della pasta materica, pervasa di forature.
Si tratta di un'opera monocroma creata in soli tre esemplari, concepiti in periodi differenti, di cui la terracotta Concetto spaziale (1951) è un raro esempio: l'essenzialità del gesto e l'iterazione della formula del buco estesa a tutta la superficie rende la materia brutalmente mortificata. In realtà, come ribadirà Fontana, si tratta di una mortificazione apparente: la violenza del gesto nasconde, invece, l'apertura di quella nuova dimensione, di un altrove ideale, faticosamente intuibile poiché mascherato dalle apparenze. Per tutti gli anni cinquanta la sua avventura creativa si svolge tra la seduzione della materia e il fascino dell'antimateria, la policromia e l'assoluta monocromia, tra una produzione scultorea ben modellata in ceramica (piatti, bassorilievi) in cui il virtuosismo esasperato dell'homo faber ha libera espressione, spesso in rapporto all'architettura, e la rinuncia alla materia nei Concetti spaziali su tela.
In questa continua oscillazione, opere come Concetto spaziale (1951), una terracotta dipinta con buchi, rappresentano una suggestiva mediazione: i fori, orientati in traiettorie diagonali, sono "illuminati" da gocce di colore a dripping, a sottolineare il contrasto tra luce e ombra, apparizione e mistero tipico delle opere su tela; tuttavia la tavoletta ha uno spessore e una consistenza materica. Alla serie dei Concetti spaziali su tavolette di terracotta eseguiti tra il 1951e il 1957, si accordano i disegni ideati come illustrazioni originali per le poesie del volume Il prato del silenzio di Lina Angioletti (Schwarz, Milano 1956), esposti per la prima volta in questa occasione.
I "temi del giorno e della notte", la poesia del tempo, sono interpretati da Fontana con immagini spaziali, allusive, in bianco e nero, per ribadire l'alternanza "esistenziale" di luce e ombra; la dispersione di segni sul foglio in traiettorie di punti incrociate o radiali, si accorda al ritmo evocativo degli ermetici versi poetici .I bozzetti in terracotta per la facciata della chiesa dell'Assunta ai Piani di Celle ligure (1956-1958), commissionati dall'architetto Luigi Magnani, rappresentano un episodio di scultura sacra analogo alle figurazioni eseguite sui piatti in ceramica, in una dimensione architettonica, e si raccordano ai numerosi studi dei bassorilievi per la V Porta del Duomo di Milano: le figure, a tutto rilievo, prendono vita dal contrasto tra la materia dinamica e magmatica della scultura e la superficie piana della facciata.
Al termine del 1958 la lunga e travagliata vicenda della V Porta del Duomo ha un esito negativo per l'artista: dopo tanti tentennamenti e rinunce la commissione verrà eseguita da Luciano Minguzzi. Il Secondo i ricordi dell'artista lasciati in una conversazione degli anni sessanta fu proprio la rabbia della sconfitta che seguì alla comunicazione, per telefono, della ferale notizia del Concorso del Duomo a scatenare tutta la violenza dei tagli: fu la perdita di una commissione importante da "scultore" a fargli distruggere con un taglierino, in un impeto d'ira, tutte le tele che aveva in quel momento nello studio. Dalle conseguenze di questo gesto purificatore nacque una nuova stagione della sua fertile vena creativa. L'atto perentorio del taglio sulla tela non distrugge, ma apre una nuova prospettiva: dapprima come sequenza di tagli, poi come unico motivo, protagonista in un fondo monocromo. Il concetto spaziale diviene "attesa". Attesa come condizione dell'uomocontemporaneo che aspetta il futuro, attesa dell'atto creativo dell'artista che si manifesta improvviso in seguito alla contemplazione della tela monocroma, attesa dell'uomo nello spazio, attratto dalle energie del cosmo infinito.
È questo un passaggio cruciale tra 1959 e 1968, nell'ultimo decennio della vita dell'artista, che conduce a quella filosofia del nulla tipica di un Fontana che si è ormai allontanato dalla dura lotta per l'affermazione, come artista, e come uomo ha raggiunto una stabilità morale ed etica, una saggezza interiore, la maturità di un filosofo. Nell'ultima serie di opere denominate ellissi del 1967 il taglio è ormai progettato e realizzato meccanicamente su legno laccato o metallo smaltato, lucido, lavorato nei laboratori artigianali di Sergio Tosi. Le forme oblunghe ovoidali, che ricordano la curvatura dell'Universo secondo Einstein, sono studiate in modo da diventare elementi variabili nello spazio: a parete o su speciali piedistalli articolati così da modificare liberamente l'inclinazione e l'orientamento, queste ultime sculture, di cui è un esempio la Pillola, sono elementi colorati che alludono ai riti della civiltà industrializzata, a una società in continuo cambiamento: il taglio diviene una cifra emblematica, quasi un segno di riconoscimento dell'intervento dell'artista, dai significati sempre nuovi.
Ribadisce umilmente Fontana nell'intervista a Carla Lonzi del 1967, che queste recenti sculture sono state ritenute simili alla curvatura dell'Universo di Einstein:"[...] è venuto uno scienziato atomico, un po' di giorni fa, ha visto questi ovali e diceva se io ero uno studioso di matematica, di Einstein perché, dice, hanno la forma della strutturazione matematica di Einstein, l'universo che è schiacciato e lungo, è quasi come un sigaro. E invece è una casualità, no? È una forma che son stato un anno a studiarla: è la più semplice e la più modesta che ci possa essere. Niente: ha i suoi soliti buchi, questo spazio sempre mio ideale: cambio le forme, uso legno laccato, (latte laccate), materiali che sono anche correnti, adesso. Non è che voglia scoprir niente, tutt'altro, continuo così...questi ovali, [...] non aggiungono niente, sono una variazione [dell'idea del "taglio"], che è quasi di divertimento, non di scoperta.
Lucio Fontana:Vede, io, purtroppo diciamo, sono un ricercatore... perché se oggi i giovani hanno un periodo di crisi, ma quasi di evoluzione, noi avevamo proprio il periodo della ricerca, no? – e anche di una ricerca valida... Perché in fondo avevamo nel Novecento degli artisti validi davanti. Lei non può disconoscere i de Chirico, Sironi, Campigli, Morandi, pittori di un rinnovamento moderno ma sempre nella tradizione... Lei capisce che le mie ricerche vanno un po' tutte alla rovescia... dal manifesto spaziale del 1946 dove si dice: Noi continuiamo la rivoluzione dell'arte attraverso il mezzo. È quella la base di tutte le cose... è una formula, in fondo. Io con questo avrei potuto non fare più niente. Perché dire "attraverso il mezzo", vuol dire che oggi si fa l'arte anche con la plastica, con la luce, dunque, l'intuizione di capire che l'arte non era solo pensata con il pennello, la pittura dimensionata al quadro, all'affresco. Era proprio prevenire che l'arte avrebbe cambiato dimensione... ma non una dimensione come primo, secondo, terzo piano... ma dimensione come volume di idea.Il Manifesto adesso può essere anche vecchio per se stesso, però ha delle cose ancora basiche... adopereremo la televisione attraverso gli spazi, formule che io ritengo ancora valide perché la televisione è un elemento semplicistico ancora. Mi hanno proposto di fare una torre alta trecento metri, mi sono rifiutato... ma neanche se fosse di ventimila metri... Cos'è? Un oggetto alto ventimila metri, ma cos'è? È la torre di Babele, che è la conquista dello spazio, ma noi il cosmo l'abbiamo già conquistato. Il satellite che dall'America trasmette le figure in Europa per televisione attraverso lo spazio, è una torre collocata a duecento, trecento o mille chilometri... È inutile che io faccia una torre di mille metri, cosa ho fatto? Ho fatto una struttura che è sempre appiccicata alla Terra... La stessa questione dell'architetto che dice "lo spazio... la figura spaziale...", ma non esiste la figura spaziale, perché c'è sempre un elemento attaccato alla Terra... È un'architettura nello spazio ma non spaziale, l'architettura spaziale sarà quella del futuro, saranno i missili, saranno le stazioni interplanetarie. Sicché, adesso, se è valida la mia scoperta, è proprio il buco... ma non è gestuale, come mi hanno sempre detto. Io ho avuto questa sfortuna, che anche gli amici mi han voluto bene, io non posso parlare male di tutta la critica italiana, perché mi han voluto fin troppo bene... però quando io facevo il buco, era gestuale! Ma anche chi oggi fa cose elettriche, caccia una vite o mette una lampadina, fa un gesto per appiccicarle, e chi fa le cose con la luce, con le macchinette, fa i gesti gestuali per costruirle... Il buco invece era proprio fuori! dalla dimensione del quadro, liberi di concepire l'arte... era una formula, uno più uno due. Non è che io bucavo per rompere il quadro, no! Io bucavo per trovare... Scusi se io parlo così, oggi lo posso dire, perché in fondo erano le mie idee... non le hanno mai capite – "rompe la tela", "fa l'informale", "distrugge" – ma non è vero!Il Pollock... Io ho avuto anche delle discussioni con gli americani, un americano una volta a Venezia mi dice [in falsetto] lei è spazialista, lei non ha capito niente degli spazi, ma chi è lei.... Vabbé, intanto mi conosce, comincia a sapere che sono Fontana, che faccio gli spazi... Mi dica qual è il suo spazio, ma lei come fa a capire lo spazio, noi abbiamo l'Arizona, lo spazio lì, quello è lo spazio! Io dico: Senta, ma se è per quello, io sono sudamericano, lì c'è la Pampa che è il doppio più grande dell'Arizona. Ho più ragione io come sudamericano che lei... Non è, lo spazio, quello che dice lei, è una dimensione... ma è un'altra cosa.E appunto il mio buco era questa dimensione, non so se la terza o la quarta, è fuori! Che è logico anche, per ragionamento, viene proprio con una logicità tale come le cose che maturano... non perché lei le inventa, ma perché gli altri la imboccano, perché nessuno, né Marconi, né Fermi, né Einstein, avrebbero mai trovato una formula se gli altri non ci fossero stati, i matematici che l'han portata alla maturazione e da lì... Dunque, noi abbiamo il primo uomo che ha fatto un segno sulla Terra, un artista, l'artista ha fatto un segno, il musicista avrà fischiato, non aveva il violino e poi gli assiri e gli egizi han fatto la seconda dimensione, il profilo... e andiamo alla terza dimensione che è la prospettiva, Paolo Uccello... Il cosmo è una dimensione incognita...tommaso trini:Lei parla di dimensione, mi fa ricordare che già...
Lucio Fontana: ...Io dico dimensione perché non so che parola poter dire... e allora da questa tela di Paolo Uccello che ha trovato i tre piani, per uscire da questa formula pittorica, da questo concetto d'arte, da questo quadro, io lo buco ed evado idealmente e anche materialmente dalla schiavitù di questo piano. Mentre il gesto di Pollock... oggi un mio quadro vale cinquecentomila lire, un quadro di Pollock vale trecento milioni, e Pollock ha fatto le cose dopo gli spazialisti... dico glispazialisti, non io, perché Crippa aveva fatto i "filetti" e i "filetti" di Crippa del 1950 sono molto importanti... Pollock ha buttato del colore sulla tela, cercava anche lui la dimensione nuova, uno spazio, ma lui ha fatto del postimpressionismo perché lui ha buttato del colore, ma in fondo l'ha buttato sulla tela, lui voleva uscire dalla tela... L'unico che ha avuto problemi di spazio è Klein, con la dimensione dei blu, quello era veramente astratto. E uno dei giovani, Manzoni, con la linea... un altro che l'avessero avuto gli americani... E con tutto quello che stanno facendo oggi non sono ancora arrivati a Manzoni, capisce? Noi li abbiamo i geni superiori agli americani, però non li sappiamo valorizzare, ecco. E la linea di Manzoni è una cosa che oggi non è stata ancora raggiunta, è così, arriverà, si capirà fra cent'anni. Allora il buco è lo spazio libero... è più avanti di Pollock, ma di un bel pezzo, e Pollock fa i quadri nel 1952 1953, e noi abbiamo bucato i quadri nel 1949.
Tommaso Trini: Lei immagini solo lo "zoccolo" di Manzoni, lo zoccolo per il mondo che significa veramente rovesciare la visione della Terra...
Lucio Fontana: ...E la linea... poi ha fatto le sue cadute, la merda in scatola, il pane dipinto, quelle cose lì... ma ci sono delle cose basiche, capisce? E poi nel 1949, il mio Ambiente spaziale... mi parlano di ambienti, ma io l'ho esposto senza sculture, senza niente, provi a pensare a quello che vuole... Oggi camminano sul prato fatto da un artista, ma allora lei o era un cretino o era uno scemo, oggi le cose sono maturate, ci vuol altro... Quando prende una rivista americana e vede gli ambienti, o una rivista italiana e vede riprodotti gli ambienti americani, nessuno si sogna di dire che Fontana li ha fatti nel 1949, non uno... Io me ne frego, perché in fondo sono soddisfatto di averli fatti. Però mi girano anche le scatole.
Tommaso Trini: Alla mostra di Foligno però tutti hanno visto il suo ambiente.
Lucio Fontana: Be', ma quella è una cosa riprodotta, io non avevo voglia neanche più di farlo, perché dico... cosa vuole che io ripeta.
Tommaso Trini: Però esteticamente era ancora preciso...
Lucio Fontana: Ma sa, era stato fatto in un momento che, guardi, era duro veramente, perché non era facile riuscire allora. Perché lei nella vita, diciamo, lotta, è un uomo, fa le sue cose, rinuncia a tante altre cose... perché io avevo un'avidità enorme di fare quelle cose e vivevo anche di quelle cose lì. Poi dicevo, be', in fondo gli altri non si interessano, ma io credo che qualche cosa ho seminato... non è che è andato tutto a vuoto. E in fondo non è che io ho inventato, perché a me mi hanno imboccato i futuristi con tempo e spazio, non è che io nego. Non faccio come Vedova che parla un'ora alla televisione e dice che ah! la luce, io ho inventato la luce, gli spazi... Io lo chiamo il primo elettricista d'Italia. E lui mi ha risposto, non è questione di fare le cose prima, ma di farle bene... È che lui le ha fatte male. Non ha nominato i futuristi, il Gruppo T, né il Gruppo mid, né il Gruppo Zero, né niente... pareva che avesse inventato tutto lui, e non è neanche giusto... Insomma, lei deve dare una paternità a certe cose, anche se parla per un'ora alla televisione lei deve dire "io faccio questo perché oggi è così, c'è della gente che mi ha preceduto"... ma non si dice, "io ho inventato tutto", uno che ha sempre dipinto, sempre sbrattato tele. Ha fatto delle dichiarazioni che i suoi disegni di quando aveva dodici anni precorrevano già la sua esposizione di Montréal perché erano tutte strutturazioni... ma ha detto delle cose, guardi, incredibili.
Tommaso Trini: E invece in questi anni è importante fare delle opere che, pur essendo nuove, abbiano dietro tutta una cultura, una ricerca... Quel che era chiaro anche nel 1948 è che lei si ricollegava di nuovo, dopo il Novecento, alle avanguardie storiche, al Futurismo, anche al Costruttivismo, questo è importante... La sua arte aveva di nuovo una validità sociale perché poteva essere capita da tutta la gente che, per esempio, andava alla Triennale di Milano nel 1951 e vedeva i suoi neon, il suo soffitto... Lei aveva una dimensione sociale perché organizzava lo spazio di tanta gente, mi pare che questo sia di nuovo importante oggi.
Lucio Fontana:Sì, in fondo, anche il "plafone" era una scultura luminosa, non era la luce. Adesso ne hanno fatto il "lampadario", ma perché? Se io l'ho chiamato Concetto spaziale, perché devono dire che è un lampadario. Agli altri dicono, "ha fatto la luce", a me dicono che ho fatto il lampadario, il buco, chissà perché. Eppure ho dato dei termini esatti: concetto spaziale. Perché devono chiamarli buchi? Mi diverto anch'io... i buchi, i tagli, vabbé, però gli ho dato dei termini precisi. Chi si sognava di chiamare un quadro Concetto spaziale? Era un oggetto, e in fondo ha precorso gli oggetti, non era più un quadro. Tutte cose che oggi sono maturate in forma perfetta ma anche in una forma decadente... Perché per me la linea di Manzoni non è stata ancora raggiunta da nessuno, come concetto di strumentazione sociale d'arte... perché è proprio l'infinito.Sono cose a cui andiamo incontro a passo lento, tornando anche indietro, come faccio io... perché io ho fatto dei passi enormi indietro, per riprendermi, no? Dai buchi passando ai tagli ho avuto dei periodi decadenti... Non è che abbia migliorato, perché il buco e il taglio sono la stessa cosa... Però a questa cosa che lei fa, le deve dare una ragione sociale... Perché se oggi lei va al cinema e vede tutti i plafoni bucati, quarant'anni fa quando lei vedeva un buco nel plafone, lo chiudeva o cercava di nasconderlo... Oggi ne fa una decorazione in senso proprio estetico, anche. Vuol dire che anche il taglio ha una funzione sociale oltre che essere valido come concetto mentale. Ecco allora che io piglio i tagli e li ho strumentati, li ho messi in una forma di chiaroscuro, dandogli anche un senso estetico, di un'estetica nuova di vedere le cose, come i buchi o le pietre... E infatti oggi uno può vedere un plafone con i buchi o i tagli e non dice niente, una volta se non facevi i cavalli, o le "vittorie", o i santi, non era concepibile. Dunque, vuol dire che il mio lavoro è valido anche come fatto sociale, non inteso come vendita... Come diceva lei, un fatto di evoluzione del pensiero, estetico anche, come si fa nel vestire, come si fa con le macchine... Ecco che lei cambia l'estetica dell'arte in una forma di vedere. Allora lei capisce che aver fatto i buchi vent'anni fa e averli esposti a Venezia quindici anni fa, be', la gente avrà protestato, però ha capito anche che vedeva una cosa nuova... almeno io penso così, no?
Tommaso Trini: Ricordo di avere letto nell'articolo che Sidney Simon le ha dedicato tempo fa su Art International un'idea molto giusta, cioè che il problema Fontana è quello posto dall'idea della nonarte. L'articolo si ricollegava a quanto lei ha detto a proposito del suo rapporto con il Barocco... C'è stato un periodo in cui lei è stato influenzato dalla dimensione del tempo nell'epoca barocca, e non solo dallo spazio, non è vero?
Lucio Fontana: Ma, anche lì, un'altra accusa. Più che Barocco, era... in fondo, lei capisce, non è facile inventare. Io nel 1932 ero iscritto ad Art et Création, e facevo un astrattismo non più geometrico ma libero, dopo la figura dorata e un po' barocca... barocca? Sì, perché il Barocco è quello che ha rotto con il classico, è un'arte importantissima, poi il Liberty... Io allora cercavo con il colore di rompere la materia, perché a me quel che dava fastidio era la schiavitù della materia, Boccioni me l'aveva già suggerito... mentre in Brancusi... Sì, io sono stato amico di Brancusi, abbiamo avuto delle grandi discussioni... lui era un genio, però io ero un giovane di fronte a lui, e facevamo delle discussioni tremende. Io facevo le lineette e lui diceva questa non è scultura, e io dicevo lo so, ma io non cerco il volume, mentre lei con l'Oiseau spezza la luce su una forma perfetta e la leviga, però Boccioni.... E lui si arrabbiava a morte perché non capiva, perché lui la materia l'ha resa veramente astratta, il suo "uovo" era una cosa veramente colossale. Con Boccioni invece la materia era già un pretesto per ricevere la luce, muscoli in movimento, lo svolgimento della bottiglia nello spazio. La materia era in secondo piano mentre era la luce che giocava. E vede che già c'erano lo spazio, la luce, la forza esterna, erano lì le mie basi e io allora volevo rompere... Sa, intanto io ho cominciato a trent'anni ad andare all'Accademia, era molto tardi, anche se avevo anni di preparazione. Poi, dai, dai, dai e dai, fin quando ho capito che la materia non aveva più importanza, la materia classica, la Terra, doveva essere abbandonata completamente. Era tutto un altro problema, era il problema di una dimensione nuova, e credo di averlo intuito presto.
Tommaso Trini: Lei non ha mai lavorato in funzione letteraria, ossia astraendo dalla realtà dei modelli formali. Ma ha sempre cercato, mi sembra, di rendere molto concreta la sua scultura per comunicare con la vita reale. Voglio dire che una scultura di Brancusi fa parte di una cultura specifica con problemi molto astratti, mentre il problema, non so, dei futuristi, era quello di portare l'arte allo stesso livello della civiltà che stava cambiando. Lo stesso ha fatto lei, in un'altra epoca.
Lucio Fontana: Sì, lì c'era anche una rivoluzione sociale, cioè la rivoluzione di un pensiero, non solo figurativa. Mentre l'arte, prima, essendo arte pura anche se valida, era propaganda, proprio, e la Chiesa aveva a disposizione il pittore, sfruttando l'ignoranza, l'idea del paradiso e dell'inferno... Il pittore era a disposizione di una politica di propaganda sociale, valida fin quando era valida, e decadente quando era sfruttamento dell'ignoranza del popolo. Viceversa i futuristi hanno cominciato a contrastare la figurazione, cominciano a fare dell'evoluzione dell'arte un fatto interiore, filosofico, di coscienza interna, non in senso figurativo, capisce?Finché oggi si arriva a questi artisti che lavorano con delle forme che per me sono forme filosofiche, insomma, come la linea di Manzoni che è un fatto di filosofia pura. Oggi non c'è un filosofo che abbia un'idea altrettanto perfetta. Abbiamo una letteratura che è rimasta indietro, quando vedo la letteratura di Moravia, di Pasolini io divento una bestia, vedo i film di Fellini, io divento una bestia... Veramente la pittura ha dato delle cose oggi che la letteratura neppure si sogna. L'arte ha fatto una rottura maggiore... il teatro, lei mi dice, ma anche nel teatro ci vuole una rottura completa.
Tommaso Trini: Parlavo del Living Theatre, per il quale il teatro è fuori dalla scena, quando si vestono, vanno in giro, vivono... è un teatro rovesciato.
Lucio Fontana: Ecco un teatro entrato nella strada e vissuto con gli altri, allora è valido. Ma il teatro ambientato, guardi, lei può farci qualunque cosa, ma...
Tommaso Trini: Lei prima parlava delle macchine, ma non mi sembrava molto entusiasta dell'uso delle macchine nell'arte, o no?
Lucio Fontana: La macchina è ancora troppo primitiva. In queste macchinette che fanno tric tric va la luce ma l'oggetto resta ancora fermo... è semplicistico, troppo. Quando noi avremo il moto perpetuo, e avremo la macchina che lo potrà trasmettere, allora... Cosa sono queste macchinette di artisti di fronte a un oggetto che a trecento chilometri sta trasmettendo alla Terra?
Tommaso Trini: Lei non pensa che gli artisti vogliano anche giocare, rendere immaginario quel che la tecnologia può già realizzare, come il viaggio nel cosmo, e tendano insomma più che altro a rovesciare le cose esistenti?
Lucio Fontana: No! Perché hanno la pretesa di andare in profondità, capisce? Questi giochi di luce, questi raggi che esplodono... non è che io sia contro, anzi. Il gioco di Le Parc dove la luce fa così, o i lavori del Gruppo mid di Milano, più interessanti ancora, che distruggono la forma, sono validissimi, perché, come dicevo prima, l'uomo della strada entra in una galleria e vede che l'arte non è più fatta con l'affresco al muro o con il quadro, ma è fatta anche in quella data nuova forma... ci pensa, va maturandosi... fin quando verrà il momento di capire se l'arte avrà ancora quella forma lì, se esisterà ancora una ragione d'essere per l'arte, o se l'arte infine avrà finito la sua funzione. Perché lei capisce che l'arte è una creazione dell'uomo, non è una necessità materiale come mangiare e dormire. È una creazione dell'uomo che a un certo momento può anche finire, no? Sarà superata da altre scienze, sarà superata da un'altra cosa. L'arte è tanto semplice perché è tutta evoluzione del pensiero dell'uomo. L'uomo si va evolvendo, il suo cervello va prendendo delle dimensioni tali che l'arte a un certo momento diventerà un fatto talmente semplicistico che... È come il disegnatore delle grotte di Altamira, tanto di cappello! Però noi guardiamo i disegni a fumetti di oggi dove fanno migliaia di cavalli di scorcio, cani che cadono, figure in tutti i movimenti... lì ci sono dentro ventimila anni di civiltà. Noi li guardiamo così, ma Giotto o Leonardo si sognavano di fare in un giorno mille cavalli di scorcio... perché Leonardo per fare un cavallo in movimento... lo conosce, no? Un cavallone grosso che pesa una tonnellata con quelle gambe che muovono così, quello non camminerebbe mai! Invece un disegnatore di fumetti oggi li fa come niente... Noi diciamo ah! Leonardo! Il chiaroscuro! Ci pare questo grande movimento! Giusto, nessuno gli leverà niente, era un genio... Però un disegnatore di fumetti che fa mille cavalli di scorcio, i profili... quello cos'è? È tutto un accumularsi di intelligenza nella mano, tutta scienza che l'uomo ha accumulato.Però a un dato momento questa arte può essere talmente semplicistica che l'uomo la ripudia... non dico la ripudia, la sorpassa. Ci sono problemi talmente più importanti... per esempio, noi qui abbiamo il Centro Euratom, e abbiamo certe discussioni... È una bellezza parlare con questa gente, fisici, biologi, sa, loro parlano così, ma ti fanno venire il freddo addosso... La continuazione della vita dell'uomo attraverso i viaggi spaziali... La possibilità di risuscitare fra cento anni... Cosa vuole che uno fra duecento anni vada a pensare se è vissuto Fontana o Castellani! Dopo cinquecento anni uno si troverà in un mondo nuovo, o diventerà pazzo, perché la sua cultura sarà arretrata di fronte a quello che troverà, o non so cos'altro. Sarà fantascienza, ma la si deve anche accettare.
Tommaso Trini: Comunque oggi molti artisti lavorano ancora con la natura, come lei ha fatto con la ceramica o le bocce di argilla... E il problema è che non si vuole più fare violenza sulla natura, trasformarla, dominarla, secondo l'ideologia della civiltà occidentale, specie con il capitalismo... Oggi l'artista ricerca un rapporto più magico con la natura, un rapporto alla pari. E qui ricordo di avere letto in uno dei suoi manifesti spazialisti qualcosa come noi siamo consapevoli di un mondo che esiste e si spiega da solo e non può essere modificato dalle nostre idee... Mi pare che avevate anche voi questo sentimento odierno.
Lucio Fontana: Io nella boccia ho fatto uno sbaglio, perché ho preso questa terra a dimensione umana, proprio queste bocce, lì, tac tac, proprio come qualcosa di incosciente; però dopo ho fatto lo sbaglio di bucarle o tagliarle. Be', io pensavo a una solitudine, a un niente... ma dopo interviene l'uomo di prepotenza, vuole far vivere questa materia. È qui che sono un uomo ancora tradizionale con la vecchia cultura di Brera e lì sono caduto in errore... Però servono, quelle cose lì, sono servite a me per non rifarle più, perché se lei vuole andare avanti, bisogna che lei faccia delle esperienze, come queste ellissi... Cosa vuole che aggiungano alle mie esperienze? Niente... È un oggetto in serie, una forma, così... Ma io glielo ho già detto prima, non posso più scoprire niente...
Tommaso Trini: Però io credo che l'arte, o la nonarte come rovesciamento della tradizione, sarà sempre importante, che l'artista in quanto essere disadattato esisterà sempre.
Lucio Fontana: Sempre? Ma allora anche il disoccupato esisterà sempre, non facciamo adesso del romanticismo... L'artista, vede che non è già più come prima? Che non ha più la sua Musa? Come concepire quarant'anni fa che non avesse la sua Musa? Oggi chi se ne frega della bella donna! Si sono trasformati i tempi. Il disoccupato... ma il disoccupato ci sarà sempre, lei ha voglia di fare le rivoluzioni. In Italia ci sono, che so, un milione di disoccupati, cinquecentomila sono cronici, e così in tutte le parti del mondo c'è gente che non ha voglia di lavorare, quelle sono delle malattie dell'uomo, come l'arte... È perché lei è giovane, anche lei ha sentito parlare di arte. Ma da qui a cinquecento anni la gente non parlerà più di arte, parlerà di mille altri problemi, e l'arte sarà come andare a vedere un fenomeno... non so, due sassi messi assieme dal primo uomo delle caverne... mah! Cosa facevano quelli là? Vanno lì a pitturare le pareti, per cosa?
Tommaso Trini: Allora non la chiamavano arte, però... Dicono che nelle caverne facessero riti, oppure facevano questi segni contro la paura...
Lucio Fontana: ...segni, sì, anche la musica... non la si potrà mai levare dall'orecchio dell'uomo. Quella è una delle forme d'arte che forse... è istintivo fischiare... il primo uomo ha fischiato e poi siamo arrivati alla musica elettronica. Sono tutte cose che l'uomo ha fatto mentre era sulla Terra. Lei deve pensare che l'uomo dovrà andare nel cosmo per esplorare pianeti nuovi e chi sa se avrà tempo per fischiare, se avrà tempo per fare dell'arte. Avrà solo tempo per viaggiare negli spazi e scoprire cose che saranno meravigliose, talmente belle che le altre cose diventeranno delle fesserie... Anche il giovane che nasce oggi è ancora legato alla Terra, a queste cose, e prima di svincolarsi... Ci vorrebbe che l'uomo si svincoli dalla Terra, che vada a vivere sulla Luna, che abbia una stazione interplanetaria da cento o duecento anni, allora lei capirà la direzione che piglierà l'uomo del futuro, oggi lei non può capir niente... Noi siamo ancora uomini della Terra, abbiamo sì delle fantasie, facciamo sì qualche esperimento, ma siamo ancora troppo appiccicati alla Terra... E io credo... siccome credo all'intelligenza dell'uomo, è l'unica cosa in cui credo, più che in Dio – per me Dio è l'intelligenza dell'uomo – allora, anche se verrà una guerra atomica che distruggerà tre miliardi di uomini, ma se restano cento uomini sulla Terra... una guerra atomica durerà quindici giorni, poi l'uomo farà la guerra a bastonate per duecento, trecento anni, magari... però non si distruggerà l'uomo. E allora, siccome ho fiducia nell'intelligenza dell'uomo, io sono convinto che l'uomo nel futuro avrà un mondo completamente... [fine della bobina].
(Trascrizione integrale del colloquio con Lucio Fontana nella sua casa di Comabbio, 19 luglio 1968, pubblicata in versione di redazionale in Domus, n. 466, settembre 1968.)